Zarathustra 62 | IV | IL SACRIFICIO DEL MIELE

PARTE QUARTA ED ULTIMA

Ahimè, dove si fecero sulla terra maggiori follie che tra i misericordiosi? E che cosa recò tanto danno al mondo quanto la follia dei misericordiosi?

Guai a tutti coloro che amano e non sanno elevarsi al di sopra della loro compassione!

Così mi disse un giorno il demonio: «Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».

E di recente l'intesi dire queste parole: «Dio è morto; per la sua compassione degli uomini, Dio è morto».

Così parlò Zarathustra

DEI COMPASSIONEVOLI

IL SACRIFICIO DEL MIELE

E di nuovo passarono i mesi e gli anni sull'animo di Zarathustra ed egli non vi badò, ma i suoi capelli divennero bianchi. Un giorno in cui sedeva su di una pietra dinanzi alla sua caverna, guardando lungi in silenzio – giacchè da quel luogo si vedeva il mare, molto lontano, sopra tortuosi abissi – i suoi animali gli girarono intorno pensierosi e finirono per mettersi di fronte a lui.

«O Zarathustra, dissero, cerchi tu con lo sguardo la tua felicità?» – «Che importa la felicità! egli rispose, è lungo tempo che non aspiro più alla felicità, bensì all'opera mia».

«O Zarathustra, risposero gli animali, tu dici così come uno che è stanco del bene. Non ti sei tu coricato in un azzurro lago di gioia?» – «O buffoni, rispose Zarathustra sorridendo, come sceglieste bene la similitudine! Ma voi sapete anche che la mia felicità è pesante e non come mobile onda: essa mi opprime e non vuol lasciarmi, ed è come pece liquefatta».

Allora gli animali gli girarono intorno pensierosi e di nuovo gli si posero dinanzi. «O Zarathustra, dissero, è dunque a causa di ciò che tu diventi sempre più giallo e cupo, sebbene i tuoi capelli vogliano sembrare bianchi e simili a canapa? Vedi, dunque, tu siedi nella tua pece!» – «Che dite, o miei animali?, rispose Zarathustra ridendo, in verità bestemmiai quando parlai di pece. Ciò che mi accade, accade a tutti i frutti che maturano. È il miele delle mie vene che rende il sangue mio più denso e anche l'anima mia più silenziosa» – «Dev'essere così, o Zarathustra, risposero gli animali appressandosi a lui, ma non vuoi tu oggi salire sopra un'alta montagna? L'aria è pura oggi, e si può veder più vasta parte di mondo che mai per l'innanzi.» – «Sì, animali miei – rispose Zarathustra – voi consigliate benissimo e secondo il mio cuore. Voglio salir oggi su un'alta montagna! Ma fate che trovi, lassù, del miele a portata di mano; miele di favo, aureo e bianco, buono e fresco come il ghiaccio. Giacchè sappiate che lassù voglio fare il sacrificio del miele».

Ma quando Zarathustra fu giunto alla sommità, egli congedò gli animali che l'avevano accompagnato, e s'accorse di esser rimasto solo: rise allora di tutto cuore, si guardò intorno e parlò così:

– Parlai d'offerte e d'offerte di miele; ma non era che un'astuzia del mio discorso e, in verità, un'utile follia! Quassù posso parlar più liberamente che non dinanzi alle caverne degli eremiti, e agli animali domestici degli eremiti.

Che sacrificio! Io prodigo ciò che mi fu donato, io, prodigo dalle mille mani: come oserei ancora chiamar ciò sacrificio?

E quando chiesi del miele, io desideravo soltanto esca e dolce visco verso cui tendono avidamente la lingua anche i burberi orsi, e gli uccelli uggiosi e cattivi:

– la miglior esca di cui hanno bisogno i cacciatori e i pescatori. Giacchè se il mondo è come una tenebrosa foresta popolata di bestie, giardino di delizia per tutti i cacciatori selvaggi, mi sembra assomigliare di più e ancor meglio a un ricco mare senza fondo,

– un mare pieno di pesci variopinti, e di crostacei del quale sarebbero allettati anche gli dèi, di modo che, a causa del mare, essi diverrebbero pescatori e getterebbero le reti: tanto è ricco il mondo di meraviglie grandi e piccine!

Sopratutto il mondo degli uomini, il mare degli uomini – è verso di lui che getto il mio amo dorato e dico: apriti, abisso umano!

Apriti e gettami i tuoi pesci e i tuoi scintillanti crostacei! Con la mia esca migliore adesco oggi per me i più prodigiosi pesci umani.

È la mia felicità che getto lontano, in tutte le direzioni, fra l'oriente, il mezzogiorno, l'occidente, per veder se molti pesci umani non impareranno ad abboccare e a dibattersi nella mia felicità,

– finchè, abboccando al mio amo sottile e nascosto, i variopinti abitatori degli abissi dovranno salire alla mia altezza, ed al più maligno di tutti i pescatori d'uomini.

Giacchè io sono tale dall'origine, e fino in fondo al cuore, tirando, attirando, sollevando ed elevando, un educatore, un maestro di disciplina, che non disse invano una volta: «Diventa chi sei!»

Dunque salgano adesso gli uomini presso di me; giacchè attendo ancora i segni annunziantimi che giunse il tempo della mia discesa, non discendo ancora io stesso, come devo, tra gli uomini.

Ecco perchè attendo qui, scaltro e beffardo, su questi alti monti, nè impaziente nè paziente, ma piuttosto come uno che abbia disimparato la pazienza, – giacchè più non patisce.

Il mio destino, mi concede infatti del tempo: m'avrebbe forse dimenticato? Oppure siede dietro un masso, all'ombra, e acchiappa le mosche?

E, in verità, son riconoscente al mio eterno destino di non incalzarmi e di concedermi tempo per pazzie e malizie, di modo che oggi ascesi questa alta montagna per pescare.

Pescò mai alcun uomo su l'alto dei monti? E quand'anche ciò che voglio quassù sia follia: val meglio questo che divenire solenne per l'attesa, laggiù, e verde e giallo –

– impazzito di collera per l'attendere, come una santa tempesta che giunge urlando dai monti, come un impaziente che grida alle valli: «Ascoltate, oppure vi batto con le verghe di Dio!»

Non che io sia avverso a tali uomini irritati: li stimo abbastanza per rider di loro. Comprendo che siano impazienti, questi grandi rumorosi tamburi che se non hanno la parola oggi non l'avranno mai più!

Ma io e il mio destino – noi non parliamo all'oggi, non parliamo al mai: noi abbiamo pazienza per parlare, e tempo, molto tempo. Giacchè bisognerà pur che venga un giorno e non potrà passare.

Chi deve venire un giorno e non potrà passare? Il nostro grande Hazar, cioè il nostro grande e remoto regno umano, il millenario regno di Zarathustra...

Quanto può esser lontano quel «lontano»? e che m'importa! Non è meno sicuro per me, ed io sto con tutt'e due i piedi su questa base,

– su un'eterna base, su dure, primitive rocce, su questa antica montagna, – la più alta e granitica, alla quale convergono tutti i venti chiedendo: dove? e donde? e per dove?

Ridi, su, ridi, mia luminosa e sana malizia! Getta dagli alti monti il tuo brillante riso di scherno! Adescami con il tuo scintillio il più bel pesce umano!

E tutto ciò che, in ogni mare, mi appartiene, il mio Io in tutte le cose, ciò pescami fuori, ciò trai in alto fino a me: ecco quello che attendo io, il più maligno di tutti i pescatori.

Fuori, fuori, mio amo! Dentro, dentro, esca della mia felicità! Lascia gocciolare il più dolce tuo succo, o miele del mio cuore! Mordi, amo mio, nel seno d'ogni cupa tristezza!

Fuori, fuori, occhio mio! O quanti mari intorno a te, quanto umano avvenire tramontante! E sopra me – qual rosea calma! Qual silenzio senza nubi!

 

Così parlò Zarathustra

Traduzione italiana di Domenico Ciampoli