Zarathustra 40 | DEI POETI

DEI POETI

«Dacchè giunsi a conoscere meglio il corpo, – disse Zarathustra ad uno dei suoi discepoli – lo spirito non è più per me che spirito per similitudine; ed anche tutto l'«imperituro» non è che una metafora».

«Già una volta ti sentii dire così – rispose il discepolo – e allora soggiungevi: «ma i poeti dicono troppe bugie». Perchè dunque dicesti che i poeti mentono troppo?

«Perchè? disse Zarathustra. Tu chiedi perchè? Già da lungo tempo trovai il motivo delle mie opinioni.

Non dovrei essere una botte di memoria se volessi portar sempre con me le mie ragioni?

Mi pesa già troppo portar con me le mie opinioni; e più d'un uccello se ne vola via.

E m'accade di trovare anche una bestia fuggita nel mio colombaio, che mi è straniera, e che trema se stendo la mano.

Ma che cosa ti disse un dì Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? – Ma anche Zarathustra è un poeta.

Credi tu dunque ch'egli abbia detto la verità? Perchè credi ciò?».

Il discepolo rispose: «Io credo in Zarathustra». Ma Zarathustra scosse il capo sorridendo.

La fede non mi fa beato, diss'egli, e tanto meno la fede in me stesso.

Ma dato che qualcuno avesse detto, con tutta serietà, che i poeti sono menzogneri: avrebbe avuto ragione, – noi mentiamo troppo.

Noi sappiamo anche troppo poco ed impariamo male: così siamo costretti a mentire.

E chi di noi poeti non falsificò il proprio vino? Più di una miscela venefica si preparò nelle nostre cantine; vi si fece l'indescrivibile.

E perchè poco sappiamo, amiamo i poveri di spirito, soprattutto quando son giovani donne.

Noi siamo avidi pur delle cose che si raccontan la sera le donnicciuole. Chiamiamo ciò l'eterno femminino.

E come ci fosse una segreta via che conduce alla scienza, che è chiusa a coloro che imparano qualche cosa: così crediamo nel popolo e nella sua «saggezza».

Ma credono tutto i poeti: che colui il quale giace su l'erba o sui solitari pendii tendendo l'orecchio, impari qualcosa di ciò che sta fra il cielo e la terra.

E se giungono loro tenere commozioni, i poeti pensano sempre che la stessa natura sia innamorata di loro.

E che essa s'accosti segretamente al loro orecchio, per narrar cose misteriose e carezzanti parole: di che si vantano e si esaltano dinanzi a gli altri mortali!

Ah, ci sono tante cose fra cielo e terra, che soltanto i poeti seppero sognare!

E in specie sopra il cielo: giacchè tutti gli dèi sono imagini e similitudini di poeti!

In verità, sempre siamo attratti verso l'alto – cioè verso il regno delle nubi: affidiamo a queste le variopinte creature della nostra fantasia, e le chiamiamo dèi e superuomini...

Sono abbastanza leggeri per questi seggi, tutti questi dèi e superuomini.

Oh!, come sono stanco di tutto ciò che è insufficiente e vuol essere avvenimento! Ah, quanto son stanco dei poeti!

Quando Zarathustra ebbe detto così, si irritò con lui il suo discepolo, ma tacque. Ed anche Zarathustra tacque; e l'occhio suo guardò nell'intimo dell'anima, come se guardasse lontano. Sospirò infine e respirò.

Io sono d'oggi e del passato – disse poi; ma v'è in me qualcosa che appartiene al domani, e al dopo domani, e al futuro.

Fui stanco dei poeti, dei vecchi e dei nuovi: son per me tutti superficiali e mari senz'acqua.

Essi non pensarono abbastanza profondamente: per ciò non cadde, il loro sentimento, fin negli abissi.

Un po' di voluttà e un po' di tedio: è ciò che di meglio vi sia ancora nelle loro meditazioni.

Il loro arpeggio mi sembra un aleggiare o un guizzar di spettri; che seppero essi fin qui dell'intimo ardore dei suoni?

Essi non mi sembrano neppure troppo puliti: intorbidano l'acqua, perchè appaia profonda.

E molto volentieri si spacciano per riconciliatori; ma per me sono mezzani e mestatori, mezzi uomini e impuri!

Ahimè, gettai le mie reti nei loro mari per prendere buoni pesci; ma sempre ne trassi fuori la testa di un vecchio Dio!

Così il mare diede all'affamato un sasso. E forse provengono essi stessi dal mare.

Certamente si trovano perle fra di loro e per questo assomigliano anche maggiormente a duri crostacei. E invece dell'anima trovai spesso in loro del limo salso.

Impararono anche dal mare la sua vanità: non è forse il mare il pavone più vano? Perfino dinanzi al più brutto dei bufali esso dimena la sua coda, e mai non si sazia dello scintillio del suo ventaglio d'argento e di seta.

Lo guarda il bufalo in atto di sfida, simile alla sabbia dell'anima, più simile ancora al folto bosco, e sopra tutto alla palude.

Che gli importa della bellezza del mare e degli ornamenti del pavone? – Questa similitudine io dico ai poeti.

In verità, il loro stesso spirito è il più vano dei pavoni e un mare di futilità!

Spettatori vuol lo spirito del poeta: siano pure dei bufali!

Ma di questo spirito io sono sazio e veggo giungere un tempo nel quale sarà egli pure sazio di sè medesimo.

Vidi giungere i penitenti dello spirito: sono i loro figli spirituali.

Così parlò Zarathustra.

 

Così parlò Zarathustra

Traduzione italiana di Domenico Ciampoli