Zarathustra 48 | DELLA BEATITUDINE INVOLONTARIA

DELLA BEATITUDINE INVOLONTARIA

Con quegli enigmi e quell'amarezza nel cuore, passò Zarathustra sul mare. Ma quando fu lungi quattro giorni dalle isole beate e dai suoi amici egli aveva superato tutto il suo dolore: vittorioso, e col piede fermo stava di nuovo davanti al proprio destino. E così parlò allora Zarathustra alla sua coscienza esultante:

Son di nuovo solo e voglio esserlo, solo col cielo puro e il libero mare: e di nuovo è intorno a me pomeriggio. Nel pomeriggio trovai, la prima volta, gli amici; nel pomeriggio, anche la seconda volta; – nell'ora in cui ogni luce diviene più lieve.

Giacchè ciò che della felicità è ancora in cammino fra il cielo e la terra, si cerca per asilo un'anima serena: dinanzi a la felicità ogni luce s'è fatta più tenue.

Oh, pomeriggio della mia vita! Una volta discese anche la mia felicità nella valle, per trovarsi un asilo trovò allora queste anime aperte ed ospitali.

Oh, pomeriggio della mia vita! Quanto non gettai via, per ottenere una sola cosa: questa piantagione vivente dei miei pensieri e quest'aurora delle mie maggiori speranze!

Compagni cercò un giorno il creatore, e i fanciulli della sua speranza: ed ecco accadde ch'egli non potesse trovarli se non creandoli prima egli stesso.

Così io sono nel mezzo dell'opera mia, andando ai miei figli e partendo da loro: per amor dei suoi figli deve, Zarathustra, dar compimento a sè stesso.

Giacchè, in fondo, noi non amiamo che la nostra creatura e l'opera nostra; e là dov'è grande l'amore per noi stessi, v'è indugio di fecondità: così io trovai.

I miei figli sono ancora nella loro primavera nascente, son tutti insieme, vicini, e tutti insieme scossi dal vento, alberi del mio giardino e del mio terreno migliore. E invero! Dove stanno tali alberi insieme, ivi sono le isole beate!

Ma vorrò un giorno sradicarli e piantarli ciascuno da sè: perchè ognuno di essi impari la solitudine, la fierezza, la prudenza.

Nodoso e attorto e con durezza inflessibile ognuno deve ergersi presso il mare, come faro vivente d'indistruttibile vita.

Là ove precipitano le tempeste nel mare, s'abbeverano le fauci del monte, ognuno deve avere le sue veglie diurne e notturne per il suo esame di coscienza.

Egli deve venir riconosciuto e provato, perchè si sappia se è della mia stirpe e origine – se padrone di volontà tenace, taciturno pur quando parla, e docile a tal segno da prendere mentre dona: –

– affinchè un giorno divenga il mio compagno e uno che crei e s'allieti insieme con Zarathustra: – uno che scrive la mia volontà sulle mie tavole: per la maggior perfezione di tutte le cose.

E per cagion sua e dei suoi pari devo dar compimento a me stesso: perciò fuggo ora la felicità e mi offro ad ogni ventura – per la mia ultima prova ed esperienza.

E invero era tempo ch'io me ne andassi; e l'ombra del viandante e il più lungo momento e l'ora più quieta – tutti dicevano a me: «è tempo!».

Il vento soffiava nella toppa e diceva: «Vieni!». La porta astutamente s'apriva e diceva: «Va!»

Ma io ero avvinto dall'amore ai miei figli: il desiderio mi tendeva quel laccio, il desiderio d'amore, perchè io divenissi la preda dei miei figli, e mi perdessi per loro. Desiderare – è per me già aver perduto me stesso. Io ho voi, miei fanciulli! In questo possesso tutto deve essere certezza, non desiderio.

Ma ardeva sopra di me il mio sole d'amore, nel proprio grasso cuoceva Zarathustra – ombre e dubbi m'assalirono allora.

Già bramavo il gelo e l'inverno: «oh che il freddo e l'inverno di nuovo mi facciano tremare e battere i denti!» sospiravo: allora gelide nebbie s'alzarono in me.

Il mio passato spezzò le sue tombe, parecchi dolori, sepolti viventi, risorsero: avevan soltanto dormito celati in funebri lenzuoli.

Così che tutto mi diceva con segni: «è tempo!». Mai io – non udivo: sin che alla fine il mio abisso si agitò e il mio pensiero mi morse.

Oh pensiero d'abisso, che sei il mio pensiero! Quando avrò la forza di sentirti scavare e di non tremar più?

Mi palpita il cuore sino alla gola quand'odo che scavi! Il tuo stesso silenzio mi vuol soffocare, oh, tu, muto come un abisso!

Non ho ancora ardito chiamarti quassù: e già era sufficiente portarti con me! Non ero ancor forte abbastanza per l'ultima audacia e l'ultima temerarietà del leone. Orrida troppo mi fu sempre la tua pesantezza: ma ritroverò un giorno la forza e la voce leonina che ti chiamerà fino a me!

E quando avrò superato questo, voglio superare anche cose maggiori: e una vittoria sarà il suggello della mia perfezione! –

Navigo intanto su mari incerti: mi lusinga il pericolo con carezzevole voce; avanti e indietro mi guardo – e non veggo ancora la fine.

Ancora non giunse per me l'ora dell'estrema battaglia; oppure sta per giungermi adesso? In verità, con bellezza insidiosa il mare e la vita mi guardano intorno!

Oh, pomeriggio della mia vita! Oh, felicità che precede la sera! Oh, porto in alto mare! Oh, pace dell'incertezza! Quanto diffido di tutti voi!

In verità io diffido della vostra insidiosa bellezza! Io somiglio all'amante che diffida dei sorrisi troppo carezzevoli. Come egli respinge da sè la diletta, tenero, ancora nella sua rigidezza, il geloso, – così io respingo da me quest'ora beata.

Lontano da me, ora beata! Mi giunge con te una felicità non voluta! Io sono qui preparato al mio più profondo dolore: tu venisti a me fuori di tempo!

Lontano da me, ora beata! Scegli piuttosto dimora laggiù – tra i miei figli! Affrettati! e benedicili ancora prima di sera con la mia felicità!

Già s'avvicina la sera il sole tramonta. È passata la mia felicità! –

Così parlò Zarathustra. Ed attese tutta la notte la sua sventura: ma invano egli attese. La notte rimase chiara e silente, e la felicità gli si avvicinò sempre più. Ma verso il mattino, Zarathustra rise in cuor suo e disse beffardo: «La felicità mi rincorre. È perchè io non corro dietro alle donne. La felicità è una donna».

 

Così parlò Zarathustra

Traduzione italiana di Domenico Ciampoli