DELLE TRE COSE MALVAGIE
1.
In sogno, nell'ultimo sogno dell'alba, io stavo oggi su di un promontorio – fuori del mondo, tenevo una bilancia, e pesavo il mondo.
Oh, perchè giunse così presto l'aurora: e mi destò col suo calore, la gelosa! Essa è sempre gelosa dell'ardore dei miei sogni mattutini.
Misurabile per chi ha tempo, ponderabile per un buon pesatore, raggiungibile a volo per ali poderose, spiegabile per i divini schiacciatori di noci: così il mio sogno trovò il mondo...
Il mio sogno, veleggiatore ardito, mezzo nave e mezzo sposa dei venti, taciturno come le farfalle, impaziente come i falchi reali: come trovò oggi il tempo e la pazienza di pesare il mondo?
La mia saggezza gli avrebbe forse parlato in segreto, la mia ridente e desta sapienza giornaliera, la quale si fa beffe di tutti i «mondi infiniti»? Giacchè essa dice: «dov'è la forza ivi pure il numero diviene padrone: esso ha più forza».
Con qual sicurezza contemplava il mio sogno questo mondo finito, non curioso, non indiscreto, non pauroso, non pregante: –
– come un bel pomo offerto alla mia mano, un aureo pomo maturo, dalla buccia fresca e vellutata così mi si offriva il mondo: –
– come se un albero mi si porgesse incontro, un albero dagli ampi rami diffusi, di robusta volontà, incurvantesi per servir d'appoggio e di seggio allo stanco viatore: così stava il mondo sul mio promontorio: –
– come se mani delicate mi portassero incontro un cofano, – un cofano aperto all'estasi di pudichi occhi adoranti: così mi si offerse oggi il mondo: –
– non abbastanza misterioso da impaurire l'amore umano, non abbastanza intelligibile da addormentare la sapienza umana; – ma cosa umanamente benigna, mi apparve oggi il mondo del quale dicono tanto male!
Quanto ringrazio il mio sogno mattutino che mi diede modo di pesare il mondo! Come una cosa umanamente benigna egli mi venne incontro, questo sogno, consolatore dei cuori!
Ed affinchè io possa imitarlo di giorno e imparare da lui ciò che in esso è più prezioso: voglio porre adesso sulla bilancia le tre cose più malvagie, e pesarle umanamente bene.
Chi imparò a benedire imparò anche a maledire: quali sono, nel mondo, le tre cose più maledette? Queste io voglio metter sulla bilancia.
Voluttà, ambizione, egoismo: queste tre furono finora le più maledette, quelle che ebbero peggior fama e maggiori calunnie, – queste tre voglio pesare umanamente bene.
Ed ecco! Qui è il mio promontorio, e là il mio mare, esso mi balza intorno lusinghiero e velloso, il fido e antico cane dalle cento teste, che io amo.
Ebbene! Qui terrò io la bilancia sopra il mare fluttuante: anche un testimonio mi eleggo che guardi te, o albero solitario che io amo, col tuo profumo selvaggio e coi tuoi vasti archi di rami!
Su quale ponte il presente passa nell'avvenire? Per quale forza ciò che è alto si congiunge a ciò che è basso? E che cosa impone a ciò ch'è alto di crescere ancora più alto? Ora la bilancia è in bilico: tre ardue questioni vi gettai; tre gravi risposte porta l'altro piatto della bilancia.
2.
Voluttà: per tutti i penitenti in cilicio che disprezzano il corpo essa è pungolo e supplizio, e maledetta qual «mondo» da tutti coloro che vivono fuori del mondo: giacchè essa schernisce e s'assoggetta tutti quelli che insegnano inganni e follia.
Voluttà: per la plebe il fuoco lento su cui si consuma; per il legno tarlato, per i luridi cenci la fornace ognor pronta ove ardono e gorgogliano.
Voluttà: per i cuori liberi innocente e libera, il giardino beato della terra, l'esuberante gratitudine dell'avvenire per il presente.
Voluttà: per il fiacco soltanto, dolce veleno, ma per quelli che hanno volontà leonina è il più grande ristoratore, vino dei vini, gelosamente conservato.
Voluttà: il grande esempio di una felicità superiore e di una suprema speranza. Molte cose infatti han diritto alle nozze e più che alle nozze, – molte cose estranee l'una all'altra più che l'uomo alla donna: – e chi comprese appieno come son stranieri fra loro l'uomo e la donna?
Voluttà: – ma io voglio alzar siepi intorno ai miei pensieri, ed anche intorno alle mie parole: affinchè non irrompano nei miei giardini i porci e gli esaltati!
Ambizione: il flagello ardente di chi ha più saldo il cuore; l'orrida tortura riservata ai più crudeli, la cupa fiamma dei roghi viventi.
Ambizione: il freno maligno che s'impone ai popoli più vani, la schernitrice d'ogni incerta virtù; quella che doma ogni cavallo e ogni orgoglio.
Ambizione: il terremoto che abbatte e discopre tutto ciò ch'è tarlato e corroso, colei che spezza feroce, impetuosa, vendicativa tutti i sepolcri imbiancati; il lampeggiante punto interrogativo accanto alle risposte intempestive.
Ambizione: dinanzi al cui sguardo l'uomo striscia, si curva, s'asservisce e si abbassa più del maiale e della serpe: – sino a che il grande disprezzo rompa da lui in un grido, –
Ambizione: terribile maestra del grande disprezzo che predica alle città ed agli imperi «levati da me!» – sin che prorompe da essi medesimi il grido: «che io mi levi di mezzo!»
Ambizione: la quale seduce anche i puri e i solitari alle altezze paghe di sè stesse, ardente come un amore che dipinge attraenti, purpuree gioie nel cielo.
Ambizione: ma chi la chiamarebbe passione se ciò ch'è alto brama scendere in basso per dominare? In verità non v'è nulla di febbricitante in tali desideri, in tali discese!
Affinchè la remota altezza non sia eternamente sola e contenta di sè, che la montagna discenda alla valle, e i venti dell'altitudine verso le pianure...
Oh, chi dunque troverebbe il vero nome per battezzare ed onorare tale aspirazione? «Virtù che dona» – così chiamò una volta Zarathustra questa innominabile.
E allora accade pure – e, in verità, per la prima volta! – che la sua parola lodò l'egoismo, il santo e buon egoismo che scaturisce dall'anima potente: –
dall'anima potente alla quale appartiene il corpo elevato, bello, vittorioso, ristoratore, intorno a cui diviene specchio ogni cosa:
il corpo flessibile e seducente, il danzatore il cui simbolo ed espressione è l'anima gioiosa di sè stessa. La gioia egoista di tali corpi e di tali anime si chiama da sè medesima: «virtù».
Con le sue parole di buono e di cattivo questa gioia egoista si protegge da sè, come se attorniata da un sacro bosco; coi nomi della sua felicità essa bandisce da sè tutto ciò che è disprezzabile.
Bandisce da sè tutto ciò ch'è vile; essa dice: male – ciò è vile! Disprezzabile le sembra tutto ciò che soffre, sospira e si lamenta sempre e raccoglie anche i minori vantaggi.
Essa disprezza anche ogni lamentevole saggezza giacchè, in verità, v'è pure una saggezza che fiorisce nell'oscurità, una saggezza d'ombra notturna che sempre sospira: «Tutto è vano!».
Essa non stima la diffidenza paurosa, e coloro che vogliono sermenti al posto di sguardi e di mani: e neppure la saggezza troppo diffidente, – giacchè è questo il contegno delle anime vili.
L'ossequioso gli pare ancora più basso, il cane che si distende subito sulla propria schiena, l'umile; e v'è pure della saggezza ch'è utile, strisciante, pietosa, servile. Ma essa odia fino al disgusto chi non vuol mai difendersi, chi ingoia velenosi sputi e sguardi cattivi, il troppo paziente che tutto sopporta e d'ogni cosa si contenta: questa è infatti usanza dei servi.
Che alcuno sia servile dinanzi agli dèi e ai calci divini, o dinanzi a gli uomini e a stupide opinioni d'uomini: ad ogni servitù sputa in viso questo felice egoismo!
Cattivo: così chiama tutto ciò che è basso e curvo e servile, gli occhi che ammiccano timorosi, i cuori oppressi, e quel contegno falso e codardo che bacia con labbra larghe e codarde.
E falsa saggezza: così chiama tutto ciò che i servi, i vecchi e gli spossati stillano dal loro spirito; e soprattutto l'assurda pedante follia dei preti!
Ma i falsi saggi, tutti i preti, gli stanchi del mondo, e coloro i quali han l'anima simile alle donne ed ai servi, – oh quanto male fecero sempre i loro intrighi all'egoismo!
E questo appunto doveva essere virtù e chiamarsi virtù, elevarsi contro l'egoismo! E desiderano essere «disinteressati» – e con buone ragioni, tutti questi vili stanchi della vita e questi ragni croce-segnati!
Ma è per loro tutti che viene ora il giorno, il mutamento, la spada del giudizio, il grande meriggio; allora molte cose diverranno manifeste!
E colui che glorifica l'Io e santifica l'egoismo, in verità, dice ciò che sa, come indovino: «Ecco, viene, s'appressa il grande meriggio!».
Così parlò Zarathustra.