Zarathustra 58 | IL CONVALESCENTE

IL CONVALESCENTE

Un mattino, poco tempo dopo il suo ritorno nella caverna, Zarathustra balzò dal suo giaciglio come un folle, gridò con formidabile voce, gesticolando quasi fosse sul suo giaciglio un altro che non volesse alzarsi; e la voce di Zarathustra risuonava in modo così terribile che i suoi animali, spaventati, gli si accostarono, e da tutte le grotte e da tutti i nascondigli vicini alla caverna di Zarathustra, gli animali fuggirono – volando, saltellando, strisciando, saltando, secondo la natura dei loro piedi e delle loro ali. Zarathustra allora disse:

– Alzati, pensiero vertiginoso, sorgi dal mio profondo! Io sono il tuo canto del gallo e l'alba tua mattutina, verme addormentato: alzati! La voce mia deve ben svegliarti!

Spezza i lacci delle tue orecchie: ascolta! Giacchè io voglio che tu parli! Alzati! V'è qui abbastanza tuono perchè imparino ad ascoltare anche i sepolcri!

Sfrega gli occhi tuoi a fin di scacciare il sonno, la miopia, l'accecamento. Ascolta me pure con gli occhi tuoi: la voce mia è un rimedio anche per i ciechi nati.

E quando ti sarai destato una volta, rimarrai desto per sempre. Non è mia abitudine, destare dal sonno avi antichi per dir loro di riaddormentarsi!...

Ti muovi, ti distendi e russi? Su, su! non russare ma parla! Zarathustra ti chiama, Zarathustra l'empio!

Io, Zarathustra, l'affermatore della vita, l'affermatore della pena, l'affermatore dell'eterno ritorno, è te che chiamo, il più profondo dei miei pensieri!

O gioia! Tu vieni, – io ti sento! Il mio abisso parla, l'ultima mia profondità è costretta a far ritorno alla luce! O gioia! Vieni qui! Dammi la mano... Ah! Lascia! Ah, ah... disgusto, disgusto, disgusto!... guai a me!

Ma Zarathustra aveva appena dette queste parole che precipitò al suolo come un morto. Quando tornò in se, era pallido e tremante; rimase coricato a lungo, e non volle mangiare nè bere. Per sette giorni restò in quello stato; ma i suoi animali non l'abbandonarono nè il giorno nè la notte, e soltanto l'aquila volava qualche volta per cercar cibo. E deponeva presso il giaciglio di Zarathustra ciò che rapiva: di modo che Zarathustra finì per esser sepolto sotto le bacche gialle e rosse, e i grappoli, e le mele rosate, le erbe odoranti e le pigne. E giacevano ai suoi piedi due agnelli che l'aquila aveva, con gran fatica, rubato ai pastori.

Infine, dopo sette giorni, Zarathustra si drizzò sul giaciglio, prese una mela rosata fra le mani, l'odorò e gioì della grata fragranza. Allora gli animali credettero giunta l'ora di parlargli:

«O Zarathustra – dissero, – sono sette giorni che tu giaci con occhi pesanti: non vuoi rimetterti in piedi?

Esci dalla tua caverna: il mondo ti attende come un giardino. Il vento si transtulla coi profumi carichi che vogliono venire a te; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti incontro.

Tutte le cose ti sospirano, ora che da sette giorni sei solo, – esci dalla tua caverna! Tutte le cose vogliono medicarti.

Venne a te una conoscenza novella, pesante e carica? Ti sei coricato là come una pasta che fermenta, l'anima tua si gonfiava e traboccava oltre gli orli».

«O miei animali, rispose Zarathustra, continuate a ciarlare così e lasciate che ascolti! Mi confortano le vostre chiacchiere: ove si ciarla il mondo mi sembra disteso dinanzi a me come un giardino.

Quale dolcezza v'è nelle parole e nei suoni! Non sono le parole ed i suoni arcobaleni e ponti illusori fra esseri separati per sempre?

A ogni anima appartiene un altro mondo, per ogni anima ogni altra anima è un mondo dell'al di là.

È fra le cose più somiglianti che ingannano i miraggi più belli; giacchè gli abissi più stretti sono i più difficili a varcarsi.

Per me – come vi sarebbe qualcosa fuori di me? Non v'è nulla di estraneo a me! Ma tutti i suoni me lo fanno dimenticare; come è dolce poterlo dimenticare!

Non furono dati alle cose nomi e suoni perchè l'uomo ne riceva conforto? – È dolce follia il linguaggio: parlando l'uomo danza su tutte le cose.

Come è dolce ogni parola, come sono dolci tutte le menzogne dei suoni! I suoni fanno danzare il nostro amore sopra variopinti arcobaleni».

«O Zarathustra – dissero allora gli animali – per quelli che pensano come noi, sono le stesse cose che danzano: tutto viene e si tende la mano, e ride e fugge – e ritorna.

Tutto va, tutto ritorna; la via dell'esistenza gira eternamente. Tutto muore, tutto fiorisce di nuovo, il ciclo dell'esistenza si persegue eternamente.

Tutto si spezza, tutto si ricongiunge, eternamente si costruisce l'edifizio dell'esistenza. Tutto si separa, tutto si saluta di nuovo; l'anello dell'esistenza resta eternamente fedele a sè stesso.

A ogni momento l'esistenza comincia; attorno a ogni «qui» si svolge la palla «là». Ovunque è il centro. Tortuoso è il sentiero dell'eternità».

«O buffoni e organetti! – rispose Zarathustra, sorridendo di nuovo – come bene sapete ciò che in sette giorni doveva compirsi: – e come quel mostro mi scese in gola per soffocarmi! Ma coi denti io gli morsi la testa e lungi da me la sputai.

E voi – voi già ne avete fatta una canzone! Ma ora sono qui giacente, stanco d'aver morso e sputato, malato ancora della mia redenzione.

E voi guardate tutto ciò? O miei animali, siete dunque crudeli anche voi? Avete voluto guardare il grande dolore come fanno gli uomini? Giacchè l'uomo è il più crudele di tutti gli animali.

È nell'assistere a tragedie, a lotte di tori, a crocifissioni, che finora fu più lieto qui in terra; e quando inventò l'inferno, fu, in verità, il suo paradiso quaggiù.

Quando grida l'uomo grande: – subito gli corre vicino il piccolo; e l'invidia gli fa penzolare fuor dalla bocca la lingua. Ma egli chiama ciò «compassione».

Vedete il piccolo uomo, soprattutto il poeta – con quanto ardore accusano le sue parole la vita! Ascoltatele, ma non vi sfugga il piacere ch'egli prova nell'accusare! Questi accusatori della vita, la vita li soggioga con uno sguardo. «Tu mi ami? – dice la sfrontata – attendi un poco, non ho ancora tempo per te».

L'uomo è contro sè stesso il più crudele animale; – e verso tutti quelli che si chiamano «peccatori» e «portatori di croce» e «penitenti», non vi sfugga la voluttà che è tra i loro lamenti e le accuse!

Ed io stesso – voglio esser con ciò l'accusatore dell'uomo? Ah, miei animali, è necessario il male più grande per il maggiore bene dell'uomo; è l'unica cosa che finora imparai, –

– il male più grande è la parte migliore della forza dell'uomo, la pietra più dura per il supremo creatore; bisogna che l'uomo si faccia migliore e più cattivo...

Non sono stato confitto in croce perchè so che l'uomo è cattivo – ma gridai come nessuno ancora gridò:

«Ahimè! perchè la sua cattiveria peggiore è tanto piccola! Ah, perchè è tanto piccola la sua migliore bontà!».

Il grande disgusto dell'uomo – esso mi ha soffocato entrandomi in gola, e anche ciò che disse il profeta: «Tutto è inutile, nulla vale, il sapere soffoca!».

Un lungo crepuscolo mi si strascicava davanti, una tristezza stanca ed ebbra fino alla morte, che diceva con voce interrotta dallo sbadiglio:

«Egli sempre ritorna, l'uomo di cui tu sei stanco, il piccolo uomo» – così diceva la mia tristezza, e zoppicava senza poter addormentarsi.

La terra degli uomini, si trasformava per me in caverna, si fendeva il suo seno, tutto ciò ch'è vivente diveniva per me umana putredine, e passato in rovina.

I miei sospiri si chinavano su tutti gli umani sepolcri e non potevan risorgere; i miei sospiri e le mie domande si rodevano, soffocavano, si lamentavano di giorno e di notte:

«Ahimè! sempre l'uomo ritorna! Torna sempre il piccolo uomo!».

Li vidi nudi una volta, l'uomo più piccolo e quello più grande: troppo simili l'uno all'altro – troppo umani, anche il più grande! Troppo piccolo il più grande! – Fu quella la mia stanchezza d'ogni esistenza!

E l'eterno ritorno anche di quello più piccolo! Fu questa la mia stanchezza d'ogni esistenza!

Ahimè, disgusto! disgusto! disgusto!... – Così parlò Zarathustra, sospirando e tremando, giacchè ricordava la sua malattia. Ma allora non lo lasciarono parlar oltre i suoi animali.

«Non continuare, convalescente! – così gli risposero i suoi animali. – Ma esci di qui, va dove il mondo t'attende, come un giardino. Va presso i rosai, le api e gli sciami di colombe! Va soprattutto presso gli uccelli cantori: perchè t'insegnino il canto!

Poichè il canto s'addice ai convalescenti; quegli che è sano può parlare. E se colui che è sano vuole canzoni, vuole altre canzoni che non quelle del convalescente».

«O buffoni e organetti, tacete! – rispose Zarathustra ridendo degli animali. – Come ben conoscete il conforto che a me stesso inventai in sette giorni!

Che di nuovo io debba cantare – inventai per me il conforto e questa convalescenza. Volete anche di ciò fare una canzone?».

«Cessa di parlare, – da capo gli risposero gli animali, – tu che sei convalescente, preparati piuttosto una lyra, una nuova lyra! Giacchè, vedi, o Zarathustra, per i nuovi tuoi canti t'abbisogna una nuova lyra.

Canta, Zarathustra, e i canti tuoi risuonino come tempeste; guarisci l'anima tua con canti novelli, affinchè tu possa portare il tuo grande destino, che non fu ancora il destino di alcuno!

Poi che i tuoi animali sanno bene chi sei, Zarathustra, e chi tu devi diventare: ecco, tu sei il profeta dell'eterno ritorno, – questo è ora il tuo destino!

Tu devi per primo insegnare questa dottrina, – come questo grande destino non sarebbe esso pure il tuo più grande pericolo e la più grande tua malattia?

Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano, che noi stessi ritorniamo con esse, che noi fummo già innumeri volte, e tutte le cose con noi.

Tu insegni che c'è un grande anno del divenire, un mostro fuor d'ogni limite grande: bisogna che, come clessidra, esso si capovolga sempre per vuotarsi di nuovo: – di modo che – tutti questi anni si assomiglino, nelle cose più grandi e in quelle più piccole, – di modo che siamo noi stessi simili a noi, in questo grande anno, nelle maggiori e nelle minime cose.

E se tu volessi ora morire, Zarathustra: ecco noi sappiamo anche come tu parleresti a te stesso: – ma ti supplicano i tuoi animali di non morire ancora!

Tu parlasti senza tremare ed emettesti piuttosto un sospiro di letizia giacchè un grande peso ed una grande angoscia si leverebbe da te, da te il più paziente. «Ora muoio e sparisco, diresti, e non sarò più nulla fra un istante. Le anime sono mortali al pari del corpo. Ma l'intreccio delle cause in cui sono avvolto tornerà un giorno – e di nuovo mi creerà! Faccio parte io stesso delle cause d'un eterno ritorno.

Con questo sole tornerò, con questa terra, con quest'aprile e questo serpente – non per una vita nuova, nè per una vita migliore o somigliante

– ritornerò sempre per questa medesima vita; la stessa, nelle grandi e nelle piccole cose, per insegnare di nuovo l'eterno ritorno.

– per proclamare di nuovo la parola del grande meriggio della terra e degli uomini, per annunziare di nuovo, agli uomini, il superuomo.

Dissi la mia parola, la mia parola mi spezza: così vuole il mio eterno destino, – tramonto come un annunziatore!

L'ora adesso è venuta, nella quale chi sparisce benedice sè stesso. Così finisce il tramonto di Zarathustra».

Quando gli animali ebbero pronunciato queste parole, tacquero e attesero che Zarathustra dicesse qualcosa; ma Zarathustra non udiva ch'essi tacevano. Egli giaceva tranquillo, con gli occhi chiusi, come un dormiente, sebben non dormisse, giacchè s'intratteneva con l'anima sua. Ma il serpente e l'aquila, trovandolo così silenzioso, rispettarono il gran silenzio che l'attorniava, e cautamente si allontanarono.

 

Così parlò Zarathustra

Traduzione italiana di Domenico Ciampoli