Zarathustra 33 | LA BALLATA

LA BALLATA

Una sera Zarathustra passeggiava nel bosco con i suoi discepoli; ed ecco che, cercando una fontana, giunse ad una verde prateria circondata d'alberi e di silenziosi cespugli: ivi danzavano fra di loro alcune giovinette. Appena ebbero scorto Zarathustra le fanciulle sospesero il ballo; ma Zarathustra s'appressò loro con gesto amichevole e disse queste parole:

«Non smettete la danza, o graziose giovinette! Non venne tra voi alcun guastafeste dall'occhio torvo, alcun nemico delle fanciulle.

Io sono l'avvocato di Dio davanti al demonio: questi è lo spirito della gravità. Come potrei io, agili fanciulle, essere il nemico della danza divina, o dei piccoli piedi dalle caviglie leggiadre?

Io sono, è vero, una selva e una notte d'alberi oscuri: ma chi non teme la mia oscurità, troverà anche rosai sotto i miei cipressi.

Ed anche il piccolo Dio, ch'è il più caro alle giovinette: egli giace presso la fontana, silenzioso, con gli occhi chiusi.

Di pieno giorno, in verità, s'addormentò quel monello! S'affaticò troppo, forse, nell'inseguir farfalle?

Non vi sdegnate con me, belle danzatrici, se castigherò un poco il piccolo Dio! Griderà e piangerà – ma egli muove il riso pur quando piange!

E con le lacrime agli occhi vi pregherà di un ballo; e voglio io stesso accompagnar la sua danza col canto.

Una canzone di scherno contro lo spirito della gravità, il mio altissimo e potentissimo demonio, che essi dicono sia il padrone del mondo».

Ed ecco la canzone che cantò Zarathustra mentre Cupido e le fanciulle danzavano insieme:

Ti fissai negli occhi, un giorno, o vita! E mi parve di sprofondare nell'impenetrabile.

Ma tu mi traesti fuori con amo dorato; e ridesti beffarda, quando ti chiamai impenetrabile.

«Parlare così conviene ai pesci, dicesti; ciò che non possono scandagliare è per essi non scandagliabile.

Ma io sono mutevole e selvaggia, e in tutto femmina, e non virtuosa...

Sebbene da voi, uomini, io sia chiamata «la profonda» oppure «la fedele», «l'eterna», «la misteriosa».

Ma voi, uomini, ci fate dono delle vostre virtù – o virtuosi!»

Così essa rise, l'infida; ma io non credo mai a lei nè al suo riso, quando parla male di sè stessa.

E poi ch'ebbi parlato a tu per tu con la mia saggezza selvaggia, essa mi disse adirata: «Tu vuoi, tu desideri, tu ami, per quanto soltanto tu esalti la vita!»

Quasi avrei dato una cattiva risposta e detto la verità a la collerica; e non si risponde mai più duramente che quando «si dice la verità» alla propria saggezza.

Così sta la cosa fra noi tre. In fondo io non amo che la vita – e, in verità, non l'amo mai tanto quando la detesto!

Se amo tuttavia pur la saggezza e spesso anche troppo, ciò avviene, poichè essa mi ricorda troppo la vita!

Ne ha l'occhio, il riso e perfino l'amo dorato: che posso io se si assomigliano tanto?

E quando la vita mi chiese: Chi è dunque la saggezza? – in fretta risposti: «Ah, sì, la saggezza!

Si è assetati di lei e non se n'è mai sazi, la si guarda sotto un velame e si cerca d'afferrarla, con le reti.

È bella? Che ne so io! Ma i carpi più vecchi si lasciano adescare da lei.

Essa è mutabile e caparbia; sovente la vidi mordersi le labbra ed arruffarsi col pettine i capelli.

Forse è malvagia e falsa, e in tutto una donna; ma quando parla male di sè stessa, è appunto allora che più mi seduce».

Quand'ebbi detto questo alla vita, essa rise maligna e socchiuse gli occhi. «Di chi parli dunque? chiese, forse di me?

E quand'anche tu avessi ragione – mi si dice questo sul viso? Ma ora parlami un po' della tua saggezza!»

Ah, e ora tu riapri gli occhi, o vita adorata! E mi parve di sprofondare un'altra volta nell'impenetrabile. –

Così cantò Zarathustra. Ma quando la danza ebbe fine e le fanciulle partirono, egli divenne mesto.

«Il sole è tramontato da lungo – diss'egli infine; il prato è umido e soffia un'aria fosca dal bosco.

Qualcosa d'ignoto m'aleggia intorno, pensoso. Come! Tu vivi ancora, Zarathustra?

Perchè? A quale scopo? Di che? Per dove? Come? Non è follia vivere ancora?

Ah, miei amici, è la sera che mi chiede così. Perdonate la mia tristezza!

È giunta la sera, perdonatemi che sia scesa la sera!»

Così parlò Zarathustra.

 

Così parlò Zarathustra

Traduzione italiana di Domenico Ciampoli